Numerosi sono gli studi che hanno dimostrato l’esistenza di un rapporto bidirezionale fra stato psicologico e gestione della malattia.
I fattori psicologici, infatti, possono influenzare il decorso di una patologia organica, interferire con i trattamenti o possono esacerbare i sintomi della condizione patologica scatenando le reazioni fisiologiche correlate allo stress (Solano, 2001; APA, 1996).
Il momento della scoperta della malattia (diagnosi), il momento in cui, dopo un periodo di benessere, ricompare la malattia (recidiva), il periodo, di durata variabile in cui la malattia ha il sopravvento (fase avanzata) sono tutte circostanze che possono provocare diversi stati emotivi che vanno dalla paura, al disorientamento, alla rabbia, alla delusione, all’ansia e alla depressione, che condizionano l’umore e che possono provocare sintomi simili a quelli della malattia di base.
La diagnosi di malattia cronica ha un forte impatto sulla qualità della vita della persona proprio perchè suscita importanti reazioni emotive.
La malattia, specie nel caso di patologie tumorali o invalidanti o di interventi demolitivi o nel caso di malattie croniche, è un trauma che interrompe il ritmo della vita sociale ed impone al malato una revisione del passato, del proprio ruolo fuori e dentro la famiglia, generando nel contempo incertezza riguardo al futuro.
L’unicità bio-psico-fisica del paziente si infrange di fronte una nuova realtà e la vita di relazione, che prima caratterizzava l’esistenza, perde importanza.
Il vissuto di malattia dilaga nella mente dell’individuo e la nuova realtà assume connotazioni sempre più strutturate e stabili che lo allontanano sempre di più dalla “vita” precedente alla patologia attuale.
Non si sente più al centro del suo mondo ma percepisce se stesso come un corpo dipendente da un farmaco, dai medici, dagli infermieri, da un familiare; un corpo che ostacola e impedisce ogni progettualità.
Il modo di reagire alla diagnosi di malattia è estremamente complesso, poiché dipende non solo da fattori personali ma anche dalle reazioni delle persone significative e dalle credenze insite nella cultura (Rubin, Peyrot, 1992).
Le reazioni più frequentemente riscontrate nei pazienti specie adolescenti, giovani adulti e nei loro familiari (genitori, coniugi, etc.)sono:
1. La ferita narcisistica: il paziente e i suoi familiari vivono la malattia come una minaccia alla propria integrità e una ferita al sentimento di salute e onnipotenza (Ricci Bitti, 1977).
Essa rappresenta un’esperienza di perdita, un attacco al senso di infallibilità.
Nei genitori si sviluppano forti sensi di colpa e responsabilità, perché essi vivono la malattia del figlio come una punizione o come una prova della loro presunta inadeguatezza.
Ciò può tradursi in un’eccessiva tolleranza e iperprotettività verso il figlio malato.
La ferita narcisistica è alla base della messa in atto di comportamenti istintuali e pulsionali di tipo aggressivo non più mediati dall’Io e dal Super-Io.
2. La reazione depressiva: la ferita narcisistica induce sentimenti di angoscia e inadeguatezza di tipo depressivo, più facilmente osservabili nei genitori.
Spesso essi lamentano una perdita del gusto della vita, inconsapevolmente si vergognano della condizione di malattia del figlio, sentono gravemente le limitazioni di vita connesse con la conduzione della malattia cronica (si isolano socialmente), amplificano le possibili complicanze future della malattia.
Una delle maggiori preoccupazioni dei genitori è che i loro figli rimangano indietro, o, ancor peggio, siano esclusi dalla vita normale, dalle tappe esistenziali comuni a tutti e che debbano, per questo motivo, soffrire.
Nei giovani si possono osservare un calo della prestazione scolastica/lavorativa, una maggiore irritabilità generalizzata oppure l’insorgere di atteggiamenti regressivi. Molti di loro mostrano segni di difficoltà emotiva nei confronti della malattia. Sentimenti come la paura, sensi di colpa, scarsa autostima e disperazione possono progredire verso uno stato depressivo che può avere un grande impatto sull’andamento e sul controllo della malattia.
3. La pulsione aggressiva: la ferita narcisistica più spesso sollecita la messa in atto di comportamenti aggressivi verso chi si prende cura del paziente. L’aggressività può rappresentare un tentativo di fronteggiare l’angoscia profonda di frammentazione del Sé, un tentativo di affermarsi, di sentirsi vivo e di poter dire “esisto ancora”.
In questo caso, la rabbia, espressa attraverso l’aggressività, può essere concepita come una sorta di rivendicazione rispetto alla frustrazione inflitta dalla malattia. Altro scopo dell’aggressività è quello di dominare l’oggetto (genitore, medico, infermiere) per impedire un possibile abbandono e far sì che la persona cara possa rimanere vicino e assolvere ad una funzione rassicurante di cura.
4. L’aggressività può manifestarsi come una sorte di “coazione a ripetere”, una manifestazione della pulsione di morte.
In tale situazione i soggetti proiettano all’esterno la propria pulsione aggressiva e tendono a ripetere vissuti spiacevoli con lo scopo di controllare, in qualche modo, la realtà esterna.
Spesso, questi soggetti compiono azioni autolesive, masochistiche e autopunitive come il non aderire al trattamento.
Infine, se la relazione è dominata da dinamiche di tipo dipendenza-aggressività, il paziente tenderà a relazionarsi con continui atteggiamenti di sfida che tengono a distanza l’altro, ostacolando la comunicazione con i medici e, quindi, l’accettazione della malattia e delle cure.
L’aggressività può essere una reazione al vissuto di ansia, alla paura di diagnosi e terapie e, più in generale, alla percezione che i propri bisogni e necessità non vengano capiti e soddisfatti.
5. L’atteggiamento di rifiuto: consiste nel negare lo stato di malattia, banalizzare o trascurare la profilassi quotidiana. La complessità della malattia e l’incertezza della situazione, unite alla impossibilità risolutiva, possono licitare nel soggetto vissuti di dolore e di impotenza tali da far emergere la necessità di allontanare il problema dalla consapevolezza.
Il tentativo di prendere le distanze dalla malattia e la conseguente negligenza nei riguardi dei sintomi e del trattamento portano inevitabilmente a degli scompensi e alla comparsa precoce di complicanze.
Al diniego possono essere associati o far seguito sentimenti d’ansia, depressione e aggressività.
6. L’atteggiamento dipendente in età evolutiva: il bambino dipende dai genitori in tutto, quindi anche nella gestione della sua malattia.
Intorno ai 10-11 anni egli acquista invece la possibilità di un buon livello di autonomia ed è in grado di svolgere da solo la prassi dei controlli clinici a casa e della terapia.
Da questo momento, i genitori dovrebbero assumere un ruolo di supervisione, non più direttamente esecutivo.
Là dove gli adulti non riescono a tollerare il raggiungimento dell’autonomia dei figli, questi tendono a diventare passivi e dipendenti sia nella malattia sia in altre aree comportamentali.
7. L’atteggiamento perfezionistico: consiste in un atteggiamento eccessivamente preciso, ordinato, scrupoloso nel seguire le indicazioni terapeutiche. La malattia viene curata in modo ossessivo, non lasciando niente al caso.
L’ossessiva attenzione verso i più piccoli segnali di disturbo fisico spesso può sfociare in controlli clinici e visite specialistiche eccessive e razionalmente ingiustificate.
L’angoscia del paziente è contenuta dai rituali intorno alla malattia.
Gli schemi emozionali del paziente, soprattutto se giovane, oscillano tra la perdita della sua integrità, connessa con il conseguente bisogno di protezione, la perdita dell’indipendenza e della libertà unita al bisogno di autonomia che dà luogo ad un attaccamento – evitante e a stati affettivi di rabbia e vergogna che danno origine ad un attaccamento ansioso – resistente.
La possibilità di intervenire psicologicamente si presenta, allora, come un aspetto della assistenza e della presa in carico del paziente, che protegge, innanzitutto, la sua attività psichica.
In quest’ottica, si pone per lui la possibilità di rivisitare la propria vita.
Recita un proverbio inglese “la malattia ci insegna quel che siamo”. Il paziente parte dalla malattia per farne un momento di crescita personale, dalla fase della diagnosi alla partecipazione a tutto il percorso terapeutico, rivedendone la scala dei valori e i progetti.
Il compito dello psicologo è allora quello di consentire al paziente di rielaborare ed integrare gli elementi emotivi e cognitivi connessi alla comunicazione della diagnosi.
L’obiettivo del trattamento psicoterapeutico è allora quello di avviare un processo di trasformazione che consenta di esperire la malattia non più come una minaccia alla propria sicurezza ma come occasione di crescita e di sviluppo personale.
Dr.ssa Anna Carderi
Tratto da Carderi A. Aspetti Psicologici della Malattia Cronica in Dalla Mente al Corpo (a cura di R. Gorio), Kappa ed., 2009.