suicidio

Dall’AUTOLESIVITÀ NON SUICIDARIA al COMPORTAMENTO SUICIDARIO.

Perché parlare di suicidarietà e autolesività non suicidaria?

Si assiste ad una sempre maggiore attenzione posta dai media e dalla comunità scientifica sui “come” e “perché” delle condotte suicidarie e non suicidarie in netta crescita.

Di fatto, esistono una molteplicità di ragioni circa le cause che sono alla base dell’atto suicida, che fanno riferimento sia all’individuo, nella sua sfera emotiva socialmente determinata, sia alle condizioni sociali in cui egli vive (Durkheim 2008), nonché biologiche e genetiche.  

Complici anche lo stress e i Traumi psicologici connessi agli effetti della pandemia, l’incidenza del fenomeno appare recentemente riguardare fasce di popolazione, di età e condizione sempre nuove e diverse, soprattutto gli anziani, persone in difficoltà e giovani.                                              .
Le stime ISTAT (2016) parlano di circa 4000 morti in Italia, circa 6,5 casi ogni 100,000 abitanti, e analogamente a quanto si registra a livello mondiale, nei giovani tra i 15 e i 29 anni il suicidio è una delle prime cause di morte (12%).

Tali dati, ci fanno solo immaginare le reali proporzioni del fenomeno! Infatti, non tengono conto dei tentativi di suicidio, difficilmente censibili poiché le uniche tracce sono quelle riconducibili ai ricoveri ospedalieri o a cure mediche.

Cosa significa essere una persona suicidaria?                                                         .                                    

Alla base del fenomeno suicidario si trova sempre una grande e prolungata sofferenza, unitamente ad una sincronica difficoltà di comunicazione di necessità, richieste d’aiuto, offerta di assistenza. Quando nella persona falliscono tutte le strategie comportamentali volte a ridurre o evitare il dolore e il pericolo elicitato dall’invalidazione traumatica, si delinea l’esperienza di impotenza ed il conseguente impoverimento della condotta che genera uno stato di senza speranza. La persona in uno stato di “senza speranza” ha la convinzione che non c’è risoluzione all’attuale situazione di dolore e sofferenza che sta vivendo, per cui nulla cambierà mai. Tale stato di impotenza impedisce alla persona sia di implementare risorse atte alla risoluzione del problema sia di attuare cambiamenti efficaci in positivo. I pensieri e gli sforzi rivolti al mondo esterno sono sospesi e alla fase di risposta ansiosa iniziale subentra uno stato di globale inibizione comportamentale (helplessness) e disinvestimento. Inoltre, la persona può vivere in una condizione di temporalità bloccata, in cui la percezione del tempo si arresta, si irrigidisce, limitando tutti i vissuti alla penosa e frustrante situazione del presente. Ciò tende a rinforzare il calo e la perdita di autostima, l’autosvalorizzazione e l’autoaccusa. La persona si percepisce impotente ma anche nell’impossibilità di poter ricevere aiuto (helplessness) (Carderi A. 2003).

L’estrema disperazione che ne deriva può elicitare pensieri di morte e aumentare il rischio suicidario o elicitare comportamenti autolesivi. Il correlato fenomeno dell’autolesionismo giovanile non è una moda ma è un indicatore del rischio suicidario. La relazioni tra autolesione e suicidio è spesso consequenziale. Tagliarsi offre molto spesso sollievo dal dolore e dalla sofferenza emotiva estrema, soprattutto perché stimola il rilascio di endorfine, gli oppiacei del corpo, nel flusso sanguigno.                                        

La maggior parte degli autori mostra il comportamento autolesivo (suicidio focale) come fattore di rischio di suicidio completato. Lo stesso autolesionismo che soffoca la spinta suicidaria la mantiene in vita. Così che autolesioni ripetute nel tempo possono aumentare la disforia, che solo il gesto suicida potrà alleviare (Oumaya M. et al, 2008). 

Quando la speranza di vivere una vita che si percepisce come degna di essere vissuta si affievolisce, e non si trovano alternative, si può cominciare a pensare al suicidio. Tale pensiero può riempire la mente con la convinzione che la morte possa porre velocemente fine al dolore. Questa convinzione può essere così rassicurante che il suicidio diventa l’unica soluzione (Linehan, M.M., 1993). Il suicidio è il gesto autolesionistico più estremo, tipico in condizioni di grave disagio o malessere psichico, in particolare in persone affette da grave depressione, disturbo bipolare e/o disturbi di personalità di tipo psicotico, schizofrenico e borderline, post traumatico da stress (Manuale MSD – Disturbi psichiatrici, 2015), disturbi alimentari o abuso di sostanze psicoattive quali alcool o droghe. Tali disturbi rappresentano un grave problema di salute pubblica. Sono associati ad alti livelli di utilizzo dei servizi di salute mentale, ad un importante grado di deterioramento psicosociale e a un alto tasso di suicidio, con stime, a seconda dei dati raccolti, che vanno dal 27%(Kutcher S, Chehil S, 2012; University of Manchester Centre for Mental Health and Risk, 2016) a oltre il 90% (Chang B, Gitlin D, Patel, R, 2011; ISTAT, 2016; APA Practice Guidelines for Psychiatric Evaluation of Adults, 2016). 

Si può dire che il suicidio è un evento tragico irrimediabile in cui convergono la sofferenza del singolo in quella del gruppo d’appartenenza in una sincronica difficoltà di comunicazione di necessità, richieste d’aiuto, offerta di assistenza. Alla base del fenomeno suicidio si trova sempre una grande e prolungata sofferenza, talora sminuita e/o disconosciuta da coloro che svolgono funzione di caregiver nei confronti degli attori del suicidio, talvolta volutamente mascherata dagli stessi attori del suicidio.

Eppure esistono segnali di allarme prodromici al rischio di suicidio e la conoscenza dei segnali di allarme per il suicidio rappresenta un obiettivo di grande rilievo per il riconoscimento precoce degli individui in crisi nonché per riconoscimento di eventuali condotte di rinforzo messe in atto dall’entourage della persona che invece di disinnescare il ciclo del comportamento autolesivo e del rischio suicidario lo promuovono.

Definire un percorso diagnostico, terapeutico, assistenziale gold standard ed evidence based practice per queste persone vuol dire identificare e trattare tempestivamente e diminuire il rischio del comportamento suicidario e non suicidario, diminuire il rischio di cronicizzazione, offrire opzioni di trattamento per affrontare i fattori modificabili, diminuire insomma i costi di cura e i costi correlati ad un mancato funzionamento sociale e lavorativo.

Una politica di prevenzione importante e articolata, in quanto si prefigge un obiettivo meramente clinico (dare assistenza e cura alla persona in un momento di particolare fragilità), un obiettivo clinico-sociale (sostenere tutto il nucleo familiare), un obiettivo di prevenzione (riduzione del rischio autolesivo e suicidario).

dr.ssa Anna Carderi

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